Con la nascita della grande azienda la produttività della terra aumentò a dismisura e l’assetto tradizionale della campagne mutò profondamente. Le antiche pratiche di coltivazione, ancora fondate sul maggese, furono sostituite dai moderni sistemi di rotazione costante e continua, che permettevano – attraverso l’alternanza di colture diverse sullo stesso appezzamento – di espandere l’area coltivata, oltreché di provvedere all’alimentazione invernale del bestiame; l’attrezzatura tecnica fu profondamente rinnovata; al reciproco danno che pastorizia ed agricoltura erano solite procurarsi si ovviò con l’allevamento del bestiame nelle stalle e con la produzione dei foraggi artificiali. L’impianto delle colture fu orientato secondo le esigenze del mercato e non più sulla base delle necessità della famiglia contadina. Insomma, il mercato e il profitto divennero oggetto di analisi e studio.
L’azienda moderna trasformò anche il paesaggio agrario, imponendo recinzioni e steccati là dove erano campi aperti e terre comuni; ma, a ben guardare, ad essere sconvolti furono soprattutto i rapporti sociali. I piccoli proprietari e i contadini poveri, non sopportando la concorrenza dei nuovi produttori capitalistici, dovettero vendere il campo e furono costretti a emigrare nelle città o a lavorare come salariati nelle terre gestite ora dal nuovo padrone. Giungeva così al culmine il secolare processo di espropriazione della terra, condotto dalle classi abbienti ai danni delle moltitudini rurali, e nasceva così il proletariato. Con larga approssimazione schematica può dirsi che la rivoluzione agraria preparò la rivoluzione industriale perché da una parte consentì quell’accumulazione dei capitali che sarebbero stati investiti nelle fabbriche, e dall’altra offrì agli imprenditori una riserva pressoché inesauribile di mano d’opera a buon mercato.